È andato a pezzi tutto.
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È andato a pezzi tutto.
Ho cominciato la mia avventura da gattara circa cinque anni fa.
Da bambina ho avuto un gatto di nome Chicco, non particolarmente amichevole. Avevamo una casa col giardino e lui viveva lì, con la sua cuccia, la sua pappa, qualche giochino, addomesticato, ma non granché avvezzo alla vita familiare.
Da ragazzina ho salvato un paio di cuccioli capitati per caso dalle mie parti, per brevi periodi e cedendoli poi a chi poteva occuparsene.
Quando sono venuta a vivere con Fratello a casa di Nonny non stavo passando un periodo particolarmente esaltante della mia vita. Avevo poca voglia di uscire e men che meno avevo voglia di prendermi impegni.
C’era questa grossa gatta nera nera, così grassa da sembrare incinta, che tutti dicevano essere cattivissima. Una volta si era infilata in uno dei palazzi del parco e, quando una signora aveva provato a cacciarla a colpi di scopa, lei aveva reagito ringhiando e soffiando. “Sembrava posseduta!” andava raccontando la vecchina terrorizzata, a cui io avrei tanto volentieri spaccato la scopa sul cranio.
La gatta grassa e nera a me, che mi mettevo seduta nelle sue vicinanze senza muovere un muscolo e portandomi dietro scatolette di tonno o bocconcini, si avvicinava piuttosto educatamente, a coda alzata e strusciandosi contro le mie gambe. Ogni tanto reagiva male, a un movimento troppo brusco, a una carezza inaspettata.
Ho iniziato a capire i gatti così, tra un graffio e l’altro datomi dalle zampacce di Nerina.
Io non sopporto chi dice che i gatti siano animali scostanti, ruffiani o privi di affetto. Il punto è che, a differenza di quanto succede con i cani, l’affetto dei gatti va guadagnato. I gatti, sotto molti punti di vista, sono molto umani, hanno reazioni più complesse di quelle di cani e cavalli, per esempio.
Il gatto ti insegna che il sistema migliore per mantenere la leadership è la persuasione. Non puoi costringere il gatto a fare quello che lui non vuole fare, devi convincerlo che quello che tu vuoi che faccia è esattamente quello che lui vuole fare.
Il gatto ti insegna a non arretrare davanti al dolore. Sulla mia pelle (letteralmente, perché soprattutto all’inizio, avere a che fare con i gatti vuol dire ridursi mani e braccia peggio del più ortodosso degli emo) ho imparato che non conviene mai ritirare la mano che sta per essere graffiata. Fisica spicciola: alla forza impressa dalla zampa che tenta di colpirci, si aggiunge quella che imprimiamo noi, intimoriti dalla possibilità di essere colpiti, ritirando la mano. Il risultato è molto più devastante di quello che si ha semplicemente lasciandosi colpire. Il graffio in questo caso è molto meno profondo.
Quando ci si guadagna la fiducia di un gatto, si sente di aver portato a termine una missione, di aver ottenuto un risultato. E la risposta è assolutamente sorprendente.
I gatti hanno l’abilità di muoversi intorno al loro umano, in perfetta armonia. Sanno quando salire, arrampicarsi, accoccolarsi , si muovono sempre al momento giusto, infilandosi nelle nostre pieghe, nel posto lasciato libero.
In effetti è quello che fanno anche col cuore del loro umano di riferimento. Si fanno posto un po’ alla volta, si creano il loro spazio.
In cinque anni avrò avuto a che fare con una decina di randagi. Maschi e femmine, coccoloni o schivi, disposti a fare amicizia o assolutamente scorbutici.
Li ho sfamati, coccolati, divisi durante i loro litigi notturni; ho avuto a che fare con servizi di pronto intervento mal coordinati e non sempre competenti, per assicurarmi che fossero sempre in salute; li ho disinfettati, ho dato loro antibiotici, antiparassitari, li ho pettinati e ripuliti, li ho visti partorire e ho avuto il privilegio di essere considerata da loro così degna di fiducia da poter rimanere sola con cucciolate nate da 24 ore.
C’è di più, I gatti sono stati il mio primo impegno dopo mesi di assoluta apatia. Dovevo vestirmi e preparare le ciotole, le medicine e le spazzole e uscire di casa, perché mi ero assunta la loro responsabilità.
Ho sofferto e soffro ancora del fatto di non poter tenere animali in casa. La mia situazione “logistica” è quella che mi ha spinto ad occuparmi dei gatti randagi, Però oggi penso che, anche se un giorno potessi permettermi di averne qualcuno in casa, non smetterei comunque di occuparmi dei felini senza tetto.
Dopo circa cinque anni, Nerina aveva imparato a venire a mangiare ad un certo orario, ad essere presa in braccio e pettinata e pulita, senza spaventarsi o innervosirsi. Non ha mai più tirato fuori le unghie, se non appena appena, facendomi “la pasta” addosso, per mostrare il suo disappunto verso un qualche mio momento di distrazione. I bambini si fermavano per accarezzarla e lei li ha sempre lasciati fare di buon grado.
La sua pappa preferita era il baccalà, che divideva con la nonna. Il suo posto preferito, le mie gambe, su cui sapeva incastrarsi perfettamente.
Un dio che evidentemente non ha troppa simpatia per me, ha deciso di farla morire la mattina di Natale.
Questo post è innanzitutto un ringraziamento. Al mondo felino tutto e a Nerina e Moka e Ken e Martino in particolare, Per i sorrisi e le fusa e l’affetto e le soddisfazioni che mi hanno dato. Per avermi scaldato le mani in inverno ed aver accettato le mie carezze anche nelle giornate più torride.
Spero di essere risultata una ridicola pazza esaltata agli occhi di quelli che sono buoni a dire solo che è da deficienti spendere soldi ed energia per gli animali, dal momento che ci sono tante persone ad averne più bisogno; a gli occhi di quelli che pensano sia esagerato soffrire per la morte di un cane, di un gatto, di un coniglio o un criceto, perché “le vere disgrazie sono altre”.
Spero vivamente di aver fatto una pessima impressione a questo genere di persona, perché vorrebbe dire che sto investendo bene i miei soldi, le mie energie e il mio affetto, ogni volta che apro una scatoletta per portarla giù in cortile.
In secondo luogo, questo post è un invito.
Prendere con sé un animale richiede tempo e denaro e spazio ed energie che non tutti possediamo.
Lasciare in un angolo del cortile una ciotola con dell’acqua fresca e una manciata di crocchette, (ma anche semplicemente degli avanzi) è qualcosa che è alla portata di tutti.
Intervenire quando si incontra un animale in difficoltà, oltre che ad essere un dovere civico e prima ancora morale, non ha alcun costo. Nonostante la non sempre perfetta organizzazione, il Pronto Intervento degli animali è accorso in mio aiuto gratuitamente ogni volta che ne ho avuto bisogno. Basta chiamare il 118 ed il centralino vi fornirà i dati del veterinario di turno in quel momento. Non ci sono costi né oneri di altro tipo.
La vicinanza anche saltuaria di un randagio è di enorme conforto emotivo, sia per loro che per noi.
Vale la pena anche solo provare. Può essere uno dei buoni propositi per l’anno nuovo, pensateci su.
Entrare il libreria, per me, è un po’ come entrare a casa e un po’ come entrare in chiesa. C’è sempre un ordine, per quanto disordinate possano essere le pile di libri ammassate sugli scaffali, c’è sempre un senso. La divisione per generi e poi quella per nomi. Guardi gli scaffali ed e è come essere a una festa, vedi facce nuove, persone che non avevi mai incrociato e poi all’improvviso un volto noto, un titolo familiare. Il ricordo di un’emozione.
Oggi vagavo fra gli scaffali e pensavo a quante storie siano state scritte, al bisogno che abbiamo di scrivere, di raccontare. Per lasciare un segno, per essere ascoltati, per essere meno soli. È una cosa grandiosa, se ci si pensa. Il potere della narrazione. Il bisogno atavico di sapere di quello che non siamo noi. Il bisogno atavico di sapere che quello che siamo noi sono anche altri.
C’è un sacco di vita in una libreria. Sì, è vero, non tutti i personaggi sono realmente esistiti, molti non sono nemmeno ispirati alla realtà, ci sono realtà nei libri che non sono nemmeno reali. Eppure sono state concepite da uomini e questo le rende umane e perciò reali. E io questo lo trovo assolutamente affascinante. C’è una tale grandezza nel concepire!
E quello che viene concepito da uno, è capito da altri. Ci sono persone che hanno una tale voglia di capire, che leggono i libri. E tutti i libri scritti, almeno una volta, sono stati letti da qualcuno. Perché c’è bisogno di storie, la narrazione ci rende sicuri, estende l’esperienza a campi della vita in cui non abbiamo esperienza alcuna.
E quindi entri in una libreria e sei circondato da storie, da persone e cose che si raccontano, anche se non esistono, perché qualcuno possa leggere.
Io la trovo una cosa straordinaria.
Insomma oggi ero in libreria e, quando entro in libreria, io tolgo la suoneria al telefono e non parlo mai a voce alta. I libri meritano rispetto, non si può essere sguaiati o rumorosi davanti ai libri, secondo me. Fa parte del codice tra gli avventori delle librerie l’essere silenziosi. Scegliere un libro è un po’ come andare ad un appuntamento, c’è bisogno di intimità per capire se ci si può piacere, non è educato che chi è intorno si metta a far cagnara.
Solo che adesso le librerie sono diventate un po’ anche negozi di giocattoli, per motivi che francamente mi sono oscuri, e quindi c’era questa bambina che correva urlando dappertutto. E i genitori fermi, senza dirle nulla, mentre lei prendeva, toccava, apriva.
Poi ha scelto un libro, lo ha fatto vedere al padre e lui le ha detto: “No, ti avevo detto che non potevi prenderne nessuno.”
L’ho trovato molto triste. Non penso che debba mai essere negato a un bambino di avere un libro. Sì, ok, siamo sotto Natale e probabilmente per la bambina saranno già stati preparati molti doni sotto l’albero, magari le regaleranno proprio dei libri. Sì, va bene, non è che i bambini debbano essere accontentati in ogni loro capriccio, non possono avere sempre tutto, dire no è importante.
Ma io lo trovo molto triste lo stesso, il fatto di negare una storia ad un bambino che te la chiede.
Quando c’era Madre, andavamo spesso in libreria insieme. Madre era stata una lettrice accanita in gioventù, con una speciale passione per i gialli. Io ho ereditato molti dei grandi classici che aveva conservato dalla sua infanzia. “Cuore”, “Incompreso”, “Marilù”, “I ragazzi della Via Paal” (perché nessuno legge più “I ragazzi della Via Paal”? È un libro bellissimo).
Da quando la vita ha cominciato a non andarle troppo bene, aveva smesso di leggere. Diceva che non riusciva più a concentrarsi.
Però in libreria ci andavamo spessissimo, ci passavamo ore intere. Lei qualche volta cercava qualcosa per sé. ma più spesso cercava libri che sarebbero potuti piacere a me. Ci dividevamo e ognuna faceva silenziosamente le proprie ricerche. Poi ci confrontavamo e sceglievamo insieme.
Io di solito arrivavo da lei con una pila gigante di libri in mano, spiegandole perché avrei voluto leggere questo o quest’altro. Faceva fatica a dirmi di no, anche se “no” significava prendere cinque libri invece di sei. Facevamo i conti, questi te li regalo, però quelli li prendi con i tuoi risparmi, questo magari adesso no, dai. Però torniamo quando li hai finiti tutti, così se vuoi lo puoi prendere.
Quasi le dispiaceva che non potessi averle tutte e subito, quelle storie. E alla fine in libreria mi ci riportava sempre.