Alle altre piaceva di più la seconda parte della lezione, quella meno faticosa, in cui si provava il saggio.
Tra una prova e l’altra si stava in un cantuccio, riunite in gruppetti, a chiacchierare. Pettegolezzi adolescenziali e moine davanti ai grandi specchi che coprivano la parete.
A me piaceva arrivare mezz’ora in anticipo, quando le ragazzine più piccole erano nel pieno della loro lezione.
Salutare con la mano e aspettare che la musica finisse per andare ad abbracciare l’insegnante.
L’odore di pece.
Mi piaceva il rito della vestizione. Le calzamaglie pesanti, il body, l’orrida sudorella sintetica, arrotolata mille volte sui fianchi. E poi la felpa attorcigliata intorno al collo, i calzettoni di spugna sopra le scarpette sfondate e annerite e gli scaldamuscoli di lana, quelli lunghi lunghi, che arrivavano fin sotto al sedere, quando li tiravi su tutti.
Mi sedevo nell’angolino di fronte allo stereo e mentre le bambine continuavano le loro prove.
Mi piaceva la sbarra. Il ritmo lento dei pliés, quando senti che il corpo inizia a reagire, i muscoli a contrarsi e tendersi, fino all’ultimo relevé in quinta. Contrai gli adduttori, sedere stretto, addominali tesi. Giù le spalle, le braccia vanno tenute da sotto e senti la tensione fino alle dita. Tieni.
…Sei, sette, otto.
Mi piaceva il tempo in tre quarti del rond de jambe e il levare dei fondus.
E -prepara.
Uno – piega.
E – raccogli.
Due – braccio tondo.
Mi piacevano i grands battements in écarté dietro, quando sembra più facile ruotare le cosce dal bacino e allora le gambe salgono di più.
Mi piaceva l’adagio. Il développé avanti in plié, poi stendi e relevé e tieni, tieni lì la gamba …e cinque, sei, sette, otto. E il tempo che si ferma lì, mentre poggi il tallone della gamba di terra e senti il sudore sulla schiena e pensi a tirare il ginocchio e alla punta del piede, che non può scendere. Anzi, mentre il tallone dell’altra gamba tocca terra, deve salire ancora un po’ e “ricordatevi di respirare!” e non mettere tensione nel collo.
Mi piaceva guardare il mio corpo in quello specchio. Guardarlo muoversi, guardarlo vivo, anche mentre era fermo.
Allora spingi il piede della gamba di terra più forte, come se dovessi allontanare il pavimento dalla suola di cuoio della scarpetta. Il pavimento ti dà la forza.
Si danza secondo il terzo principio della dinamica: ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria.
E allora spingi, spingi il piede contro il pavimento, mentre l’altra gamba sale qualche centimetro più su. E butti fuori l’aria, rilassando le spalle, mettendo la tensione dove serve, tra l’indice e il medio della mano che tieni davanti a te, che indica allo sguardo la direzione da seguire.
E poi spingi ancora, spingi più forte, fin quando la tensione nella gamba di terra è tanta da costringere il busto ad allungarsi verso l’alto, sempre di più.
Apri il bacino, porta in avanti il tallone di terra che è lì, sospeso a mezz’aria; senti la forza che ti attraversa, gli arti così tesi che sembrano volersi staccare dal tronco.
Respira.
Stai.
Mi manca.
Ricomincia.
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Ho come l'idea che, non appena avrò una vita un po' più regolare, lo farò. Aiuto.
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