Dicono che, per i caratteri come il mio, fare bilanci sia una pratica da evitare.
E infatti eccomi qua.
Sono nata il 31 Agosto. Il giorno prima del 1 Settembre. Il giorno prima di Capodanno, praticamente. I bilanci sono inevitabili.
E allora.
A 28 anni avrei voluto avere un lavoro e una casa. Avrei voluto abitare per conto mio e portare il mio cane a passeggio.
A 28 anni ho iniziato a lavorare da troppo poco per avere uno stipendio che mi faccia vivere per conto mio. Il cane non ce l’ho, perché la famiglia è allergica e contraria e perché le ore in cui sto a casa in stato vigile si contano sulle dita di una mano. Una casa non ce l’ho. Ho una stanza e mezzo. Risparmio, tollero. Ogni tanto sbarello. Passo un sacco di tempo sui siti di immobiliari e sogno il mio bilocale in centro a Roma. 30 metri quadri resi pazzeschi dalla mente geniale di un Ikeano in maglietta gialla.
Il lavoro certi giorni mi diverte, altri mi fa venire voglia di urlare. Ma forse è solo colpa degli ormoni. I colleghi sono belli belli in modo assurdo. Nel senso che una banda di pazzi così non sarebbero riuscita a metterla insieme di proposito, nemmeno istituendo un pool di luminari della gestione risorse umane. Oggi ci siamo sfondati di prussiane e mi hanno fatto trovare sulla scrivania un quaderno nuovo con su scritto “I hate meetings”. La promessa è di portarlo alla prossima riunione con Capissimo e Superconsulente. Non mancherò.
A 28 anni avrei voluto passare i fine settimana a preparare cene per i miei amici.
Guess what? Non ho più una cucina. Però, sorprendentemente, ho gli amici. Vado nei parchi, faccio shopping, passeggio, mangio schifezze. In compagnia. Organizzo appuntamenti e li rispetto. Rido. Li faccio ridere. Credo. C’è un sacco di gente piena di cose da raccontare di giro. Basta fermarsi un po’ ad ascoltare.
A 28 anni pensavo che avrei avuto una mamma a cui rivolgermi.
Invece non ce l’ho. Ho una nonna eccezionale, una zia e una cugina pazzesche. Un sacco di sorelle maggiori, incontrate un po’ dappertutto. Le TwitterMamme che mi mandano i cuoricini e gli incoraggiamenti, la collega che mi abbraccia e mi compra il pranzo quando me lo dimentico, la dottoressa che è diventata il ponte tra passato e presente.
Poi ho i ricordi e il patrimonio genetico di 23 cromosomi. Sono quasi sempre certa di sapere cosa mi direbbe.
Poi ho il vuoto e questa ferita che comunque di rimarginarsi non ne vuole proprio sapere. Però non è più infetta, non si allarga. Sta lì.
A 28 anni avrei voluto avere una persona speciale accanto. Oppure avrei voluto essere indipendente e fregarmene, restare quella che stava bene da sola.
Sono sola. Non sto bene da sola. Ed è un fatto. E non è affatto semplice da accettare. Non sono ancora così disperata da volere qualcuno a caso, pur di non stare sola. Per fortuna.
Però sono stanca. Di dormire sola. Di svegliarmi sola. Di trovarmi la sera sola sul divano, davanti alla tv. Di andare alle feste sola, di fare cose che ho paura di fare sola.
Sono stanca delle bugie, dei sotterfugi. Sono stanca di sentirmi un tappabuchi, un ripiego. Sono stanca di sentirmi dire che non è colpa mia, non è che io sbagli, però meglio di no. Sono stanca di essere ignorata. Di vedere gli appuntamenti saltati e le serate rimandate all’ultimo. Sono stanca di elemosinare attenzione.
Oggi il tempo grigio mi ha fatto scoppiare un gran mal di testa. E avrei voluto avere qualcuno a cui scriverlo. “Mi è venuto il mal di testa, uffa”.
A 28 anni ho capito che per essere felici basterebbe veramente poco.
Basta la pazienza. Capire che la felicità è una cosa difficile e faticosa, perché va costruita. Ma è anche tanto semplice. È amare e essere amati. Non serve altro.
Basta la consapevolezza di sapere che ti stai facendo il culo per mettere insieme qualcosa che è tuo, che ti rimane pure quando tutti se ne vanno.
Basta la condivisione. Di un posto, un momento, una canzone, una pizza, una voglia.
Basta avere qualcuno a cui fare proposte indecenti e che non veda l’ora di farle diventare realtà.
Basta l’empatia. Rispettare gli altri, ascoltare. Abbracciare. Essere disponibili.
Io aspetto che tu ti accorga che ci sono. Aspetto. Che tu mi venga a prendere e mi tenga stretta stretta. Che tu scopra che con me si può ridere, piangere e perfino guardare la partita in tv.