Cose che sarebbe meglio tacere

Sono i dettagli. Sono i fottutissimi dettagli.
Sono le frasi che non sento, le attenzioni che non ho.
Sono i risvegli incazzati e le nottate tristi.
Sono il telefono che non suona e le vecchie conversazioni su whatsapp.
Sono quelle cose che non sai a chi dire perché nessuno capirebbe.
Sono i sensi di colpa e le bugie. Sono le cazzo di bugie dimmerda.
Sono le cose che restano in gola, che non le puoi buttar fuori, ma non riesci a mandarle giù.
Sono le confessioni fatte e il fianco scoperto e il coltello che ci affonda dentro.
Sono i colpi tra il cuore e lo stomaco e la voglia di dire non vale, non di nuovo, per favore.
Sono la rabbia repressa e la facciata di buona educazione e la voglia di urlare e di dire vaffanculo.
Sono il peso che io ho dato a certe parole. E sentirle sulla bocca di qualcun altro mi uccide.
Sono le canzoni che partono all’improvviso nella riproduzione casuale. Casuale un cazzo. Quelle frasi lì mi devastano.

They met when he was in a hospital
he whispered “I ain’t got no heart” into the room
She said “I’ll make you smile again” and made an airplane
out of some pretty words put in a spoon

He said “I’ll never see again
my eyes are sorta twisted inwards, deep into my throat”
She said “don’t worry baby, I’ll open up your jam,
I’ll open up my preatty self” and laid down on his road.

She peeled his skin away, so every day he’d cry
and in those tears he’d lie to find some peace
She broke from all his words, but she was made of mercury,
she’d come together later piece by piece.

And it became the game they played under the blankts
in the bed, pretending she was small and he was big.
She became so small, he could lift her, body and heart and all.
He held her up naked, she was just his fig.
She said “How do you know? Maybe you are”
Maybe you are.

(Senti)mentale

Temo l’imbarazzo.
Non sono in grado di gestirlo o di nasconderlo. Mi si legge nel viso che si infiamma e negli occhi che diventano lucidi.
E allora cerco di evitarlo.
Sono brava a ridere di me, dei miei difetti. Li sbatto in faccia al mondo. Ti dico guarda sono così, prendere o lasciare.
E mi aspetto che mi si lasci.
Non è forse la soluzione più ovvia? Ti do il permesso di lasciare perdere e di farlo senza sensi di colpa. Io odio i sensi di colpa.
Io mi vado benissimo così, ma non ci sono buone ragioni per cui possa andare bene agli altri.
Se mi prendi per come sono, stai facendo un sacrificio, è ovvio. A nessuno piacciono difetti e ossessioni. E se tu te li fai andare bene, è perché stai chiudendo un occhio su qualcosa, perché mi fai un favore. E io i favori non li voglio da nessuno. Mai.
I favori vanno restituiti. E io non voglio debiti.
Perché come si fa a pagare debiti grossi così? Come i miei difetti e le mie ossessioni.
Ricevere mi imbarazza, ci sono poco abituata. Non chiedo mai molto, mi accontento delle briciole perché penso che in fondo non possa pretendere più di questo.
In cambio ti do pezzi interi di me, quelli che non dovrei. E finisco per perdermi.
Mi faccio prendere dallo stupido e insensato bisogno di sentirmi necessaria per qualcuno.
Vivo in un mondo ingenuo, troppo poco egoista.
Mi illudo che le bugie non servano e che perciò non vengano dette.
Mi illudo che non chiedere nulla possa fare, la differenza, che possa rendermi speciale.
E invece è solo il modo migliore per farsi male.
Non chiedere nulla ti rende debole. Ed è una lezione che non riesco a imparare, a quanto pare.
Non chiedere nulla ti rende una preda facile.
Facile da fare a pezzi. Ancora più facile da buttare via.

Di Te

Era una sera d’estate quando è cominciato. Ricordo una camicia da notte di cotone e io e te a casa.
L’estate dei miei diciotto anni, non ancora compiuti.
Dicevi di non sentirti bene, un problema di digestione o forse un virus, chi lo sa.
Ricordo la porta socchiusa del bagno, io fuori col mio terrore del vomito. Ma ci mettevi troppo tempo e ti lamentavi fortissimo. Gridavi, piangevi.
“Non entrare! Non aprire la porta!”
Lo ripetevi in continuazione, sempre più debolmente.
Ricordo il viso bianchissimo quando uscisti fuori. “Non andare in bagno! Non aprire la porta!”
Ricordo di averti accompagnato verso la camera, perché non ti tenevi in piedi. E a metà corridoio ti hanno ceduto le gambe. E siamo finite sul pavimento entrambe.
“Aiutami! Sto male”. Respira, alza le gambe, sarà un calo di pressione, prendo lo zucchero. Aspetta, cerco il telefono, chiamo aiuto.
Ma tu non c’eri più. Tornasti indietro mentre l’aiuto arrivava. Gli schiaffi in faccia fino a farti svegliare, poi sollevarti e portarti a letto, perché lui è sempre stato forte abbastanza.
“Non farla entrare in bagno”. Non mi fece entrare. Ma impallidì e diventò silenzioso. Pulì con metodo e velocemente, mi preparò la camomilla, mi mise a letto e se ne andò.

Non so cosa è successo dopo. Mesi e mesi di silenzio, di buio quotidiano. La vita normale, che per noi normale non è stata mai.
Poi un giorno, ci hai riunito in una stanza. Eri sulla sedia blu. O forse ai piedi del letto.
Ci hai detto chiaro e tondo come stavano le cose. Hai promesso di fare tutto quello che andava fatto.
E io ho perso l’equilibrio. Ma mi sono morsa un labbro e ho guardato fuori dalla finestra e non ho pianto, anche se non riuscivo a parlare. Ho detto “Ok.”
Ero entrata all’università che avevo scelto, avevo cambiato casa, cambiato città. Avevo delle aspettative.
Il 2 Ottobre sono cominciate le lezioni. Il 2 Novembre c’è stata l’operazione.
Facevo su e giù tutte le settimane. Dalla domenica al mercoledì stavo via, dal giovedì alla domenica a casa.
Le settimane le scandivano le terapie, il vomito, la voglia di arachidi, la debolezza.
Però eri a casa ed era buffo, provavo quasi uno strano piacere. Non ci ero abituata, hai sempre lavorato.
Sembrava se ne stesse venendo fuori.
E poi le analisi e le novità: fegato e ossa. E allora non ce lo siamo detti, ma tu ti arrendesti lì. Continuammo le terapie, ma tu non ci credevi più.
Secondo ciclo di chemio per il fegato. Radio per le ossa. Per quella roba di merda che ti si era attaccata alla schiena e ti faceva malissimo. Ti mettevamo in macchina tutte le mattine, ti tiravamo fuori di peso tutti i pomeriggi. E tu piangevi per il dolore ed ti si contorceva la faccia. E noi zitti. Mai nessuno ha tirato fuori una lacrima davanti agli altri. Testa bassa e mascella serrata, un giorno dopo l’altro.
Era tornata l’estate. Compivo vent’anni.
Ai festeggiamenti ci avevi sempre pensato tu. Delegasti tutto a V, che fu bravissima, tanto per cambiare.
Non mancava nulla. L’effetto sorpresa, i cartelloni di auguri, la sangria, il regalo da parte tua, la torta. Era strano che non l’avessi fatta tu. Erano il tuo pezzo forte, le torte di compleanno.
Però il dolore era lì e non accennava a diminuire. E tu non ce la facevi più.

Nessuno ti dice che le cure terminano. Ti dicono che le cure vengono sospese. Come se fosse un fatto temporaneo. Come se stessi andando a prendere aria in superficie prima di immergerti di nuovo.
Ci facevi le raccomandazioni. “Quando non ci sono più”, cominciavano sempre così e noi ti azzittivamo.
La fine la segnano le parole “terapia del dolore”.
Avevi una pompa attaccata al port-a-cath che andava ricaricata ogni poche ore. Si rifiutarono tutti di imparare a farla funzionare e toccò a me. Se uscivo di casa, sapevo di dover rientrare entro un certo orario. Mi arrivavano telefonate deliranti. “Torna a casa di corsa, il port si è svuotato”
Stacca la pompa vuota, pulisci il catetere centrale con eparina e fisiologica, riempi la pompa di toradol e morfina e riattaccala. Giorno e notte, giorno e notte.
E poi sentivi comunque dolore e ti dovevamo dare l’OxyContin e allora riposavi.
Non so ancora se sia stata la morfina o se semplicemente la malattia stesse arrivando anche al cervello.
Stavi a letto.
Ti alzavo di peso quando volevi andare in bagno o venivi a tavola a mangiare.
Dicevi stranezze, frasi sconnesse. Ci guardavi e chiedevi:”Sto dicendo cose senza senso, vero?” e noi facevamo finta di riderci su.
Un giorno eravamo di nuovo a casa io e te. Mi chiamasti per andare in bagno e io semplicemente non riuscii ad alzarmi. Mi faceva malissimo la schiena e non sapevo cosa fare e non potevo muovermi e mi veniva da piangere. Però ti dissi solo di aspettare. E non lo so chi me la diede la forza di alzarmi da quel letto, ma alla fine mi alzai. Perché tu dovevi andare in bagno.
Poi alzarsi per mangiare era troppo faticoso e non avevi fame. Allora ti davo da mangiare a letto e quando non ce la facevi più da sola, ti imboccavo. “Dai solo un altro po’” e mi suonava talmente ridicolo, talmente insensato. Non era quello l’ordine delle cose.

Le prime cose che il cervello dimentica, sono quelle che ha imparato più recentemente.
Noi siamo stati i primi a essere dimenticati. Non ci riconoscevi più.
E allora ho capito.
Ho capito a che serviva quel calvario. Serviva ad abituarci all’idea che non ci saresti stata più.
Te ne andavi un pezzo alla volta, in modo che noi potessimo trovare il modo per imparare a riempire il vuoto.
Chiamavi di continuo:”Papà, papà”. Sembravi una bambina.
E tutti pensavano che volessi il tuo, di papà. Che era sempre lì con te e che poi ha deciso che gli mancavi troppo per aspettare ancora prima di vederti di nuovo.
Però secondo me tu chiamavi lui. Secondo me è lui che volevi fino all’ultimo secondo. Era straziante.
Non mangiavi più. Allora ho imparato a cambiare le flebo. Una di glucosata, due di fisiologica. A goccia non troppo lenta.
Ti alzavamo di peso, solo per andare in bagno.
Un giorno, mentre lui ti accompagnava, le tue gambe hanno ceduto di nuovo.
E c’era sangue, sangue denso. Dappertutto. Col suo odore dolciastro e ferroso.
Io quell’odore lì non me lo tolgo più dal naso.
Poi lui ha detto:”Basta, è finita”. Ti teneva, a peso morto, in mezzo a quell’enorme pozza di sangue. E c’era quell’odore dolciastro e ferroso e a me veniva da piangere e da vomitare. E ho stretto fortissimo i denti e ho detto ad alta voce che non era giusto. Non era giusto.
Però tu eri troppo forte e hai combattuto fino alla fine. Sono arrivati i medici e hanno detto che c’eri ancora.
Per me quella mattina è finito tutto.
Nei giorni successivi, casa era affollata e silenziosa. Noi, tutti noi, l’infermiere, lui. C’era una strana calma.
Poi, una mattina, mentre io dormivo e gli altri si erano allontanati, sei rimasta sola con lui.
Allora hai fatto un sospiro e sei andata via.

Dopo c’è stato lui che è venuto a dircelo mentre eravamo ancora a letto.
“Ok, prima faccio colazione e poi ci organizziamo” gli ho risposto.
Sono diventata un cyborg. Ho fatto le telefonate necessarie, accolto gli ospiti, parlato, spiegato, detto frasi di circostanza, ringraziato per le condoglianze.
Poi la casa si è svuotata. Siamo rimasti noi e lui. Tu eri ancora nell’altra stanza, ma non c’eri più. Ed era strano.
Poi il funerale e la sepoltura. Avevo i miei jeans preferiti e i tacchi alti e gli occhiali scuri.
Sono stata con V, sul fondo della chiesa. Lontano dai parenti, lontano dalla gente che piangeva.
Io ho pianto poco, tutto sommato. Ho pianto quando il tumulo è stato chiuso. Quando ci si rende conto che non ci si vedrà più.
V aveva avvisato gli amici più stretti. Abbiamo mangiato insieme. Poi sono andati via.

Da quel momento è iniziata la guerra vera.

Ho fatto delle promesse. Ti ho promesso che ce l’avrei messa tutta, che non mi sarei avvilita, che avrei finito in fretta gli studi e avrei trovato il modo di realizzarmi.
Disattendo le promesse che ti ho fatto ogni giorno che passa.
A me stessa ho promesso di piangere solo per le cose importanti. Ma ultimamente, continuo a fallire anche in questo.