Di Te

Era una sera d’estate quando è cominciato. Ricordo una camicia da notte di cotone e io e te a casa.
L’estate dei miei diciotto anni, non ancora compiuti.
Dicevi di non sentirti bene, un problema di digestione o forse un virus, chi lo sa.
Ricordo la porta socchiusa del bagno, io fuori col mio terrore del vomito. Ma ci mettevi troppo tempo e ti lamentavi fortissimo. Gridavi, piangevi.
“Non entrare! Non aprire la porta!”
Lo ripetevi in continuazione, sempre più debolmente.
Ricordo il viso bianchissimo quando uscisti fuori. “Non andare in bagno! Non aprire la porta!”
Ricordo di averti accompagnato verso la camera, perché non ti tenevi in piedi. E a metà corridoio ti hanno ceduto le gambe. E siamo finite sul pavimento entrambe.
“Aiutami! Sto male”. Respira, alza le gambe, sarà un calo di pressione, prendo lo zucchero. Aspetta, cerco il telefono, chiamo aiuto.
Ma tu non c’eri più. Tornasti indietro mentre l’aiuto arrivava. Gli schiaffi in faccia fino a farti svegliare, poi sollevarti e portarti a letto, perché lui è sempre stato forte abbastanza.
“Non farla entrare in bagno”. Non mi fece entrare. Ma impallidì e diventò silenzioso. Pulì con metodo e velocemente, mi preparò la camomilla, mi mise a letto e se ne andò.

Non so cosa è successo dopo. Mesi e mesi di silenzio, di buio quotidiano. La vita normale, che per noi normale non è stata mai.
Poi un giorno, ci hai riunito in una stanza. Eri sulla sedia blu. O forse ai piedi del letto.
Ci hai detto chiaro e tondo come stavano le cose. Hai promesso di fare tutto quello che andava fatto.
E io ho perso l’equilibrio. Ma mi sono morsa un labbro e ho guardato fuori dalla finestra e non ho pianto, anche se non riuscivo a parlare. Ho detto “Ok.”
Ero entrata all’università che avevo scelto, avevo cambiato casa, cambiato città. Avevo delle aspettative.
Il 2 Ottobre sono cominciate le lezioni. Il 2 Novembre c’è stata l’operazione.
Facevo su e giù tutte le settimane. Dalla domenica al mercoledì stavo via, dal giovedì alla domenica a casa.
Le settimane le scandivano le terapie, il vomito, la voglia di arachidi, la debolezza.
Però eri a casa ed era buffo, provavo quasi uno strano piacere. Non ci ero abituata, hai sempre lavorato.
Sembrava se ne stesse venendo fuori.
E poi le analisi e le novità: fegato e ossa. E allora non ce lo siamo detti, ma tu ti arrendesti lì. Continuammo le terapie, ma tu non ci credevi più.
Secondo ciclo di chemio per il fegato. Radio per le ossa. Per quella roba di merda che ti si era attaccata alla schiena e ti faceva malissimo. Ti mettevamo in macchina tutte le mattine, ti tiravamo fuori di peso tutti i pomeriggi. E tu piangevi per il dolore ed ti si contorceva la faccia. E noi zitti. Mai nessuno ha tirato fuori una lacrima davanti agli altri. Testa bassa e mascella serrata, un giorno dopo l’altro.
Era tornata l’estate. Compivo vent’anni.
Ai festeggiamenti ci avevi sempre pensato tu. Delegasti tutto a V, che fu bravissima, tanto per cambiare.
Non mancava nulla. L’effetto sorpresa, i cartelloni di auguri, la sangria, il regalo da parte tua, la torta. Era strano che non l’avessi fatta tu. Erano il tuo pezzo forte, le torte di compleanno.
Però il dolore era lì e non accennava a diminuire. E tu non ce la facevi più.

Nessuno ti dice che le cure terminano. Ti dicono che le cure vengono sospese. Come se fosse un fatto temporaneo. Come se stessi andando a prendere aria in superficie prima di immergerti di nuovo.
Ci facevi le raccomandazioni. “Quando non ci sono più”, cominciavano sempre così e noi ti azzittivamo.
La fine la segnano le parole “terapia del dolore”.
Avevi una pompa attaccata al port-a-cath che andava ricaricata ogni poche ore. Si rifiutarono tutti di imparare a farla funzionare e toccò a me. Se uscivo di casa, sapevo di dover rientrare entro un certo orario. Mi arrivavano telefonate deliranti. “Torna a casa di corsa, il port si è svuotato”
Stacca la pompa vuota, pulisci il catetere centrale con eparina e fisiologica, riempi la pompa di toradol e morfina e riattaccala. Giorno e notte, giorno e notte.
E poi sentivi comunque dolore e ti dovevamo dare l’OxyContin e allora riposavi.
Non so ancora se sia stata la morfina o se semplicemente la malattia stesse arrivando anche al cervello.
Stavi a letto.
Ti alzavo di peso quando volevi andare in bagno o venivi a tavola a mangiare.
Dicevi stranezze, frasi sconnesse. Ci guardavi e chiedevi:”Sto dicendo cose senza senso, vero?” e noi facevamo finta di riderci su.
Un giorno eravamo di nuovo a casa io e te. Mi chiamasti per andare in bagno e io semplicemente non riuscii ad alzarmi. Mi faceva malissimo la schiena e non sapevo cosa fare e non potevo muovermi e mi veniva da piangere. Però ti dissi solo di aspettare. E non lo so chi me la diede la forza di alzarmi da quel letto, ma alla fine mi alzai. Perché tu dovevi andare in bagno.
Poi alzarsi per mangiare era troppo faticoso e non avevi fame. Allora ti davo da mangiare a letto e quando non ce la facevi più da sola, ti imboccavo. “Dai solo un altro po’” e mi suonava talmente ridicolo, talmente insensato. Non era quello l’ordine delle cose.

Le prime cose che il cervello dimentica, sono quelle che ha imparato più recentemente.
Noi siamo stati i primi a essere dimenticati. Non ci riconoscevi più.
E allora ho capito.
Ho capito a che serviva quel calvario. Serviva ad abituarci all’idea che non ci saresti stata più.
Te ne andavi un pezzo alla volta, in modo che noi potessimo trovare il modo per imparare a riempire il vuoto.
Chiamavi di continuo:”Papà, papà”. Sembravi una bambina.
E tutti pensavano che volessi il tuo, di papà. Che era sempre lì con te e che poi ha deciso che gli mancavi troppo per aspettare ancora prima di vederti di nuovo.
Però secondo me tu chiamavi lui. Secondo me è lui che volevi fino all’ultimo secondo. Era straziante.
Non mangiavi più. Allora ho imparato a cambiare le flebo. Una di glucosata, due di fisiologica. A goccia non troppo lenta.
Ti alzavamo di peso, solo per andare in bagno.
Un giorno, mentre lui ti accompagnava, le tue gambe hanno ceduto di nuovo.
E c’era sangue, sangue denso. Dappertutto. Col suo odore dolciastro e ferroso.
Io quell’odore lì non me lo tolgo più dal naso.
Poi lui ha detto:”Basta, è finita”. Ti teneva, a peso morto, in mezzo a quell’enorme pozza di sangue. E c’era quell’odore dolciastro e ferroso e a me veniva da piangere e da vomitare. E ho stretto fortissimo i denti e ho detto ad alta voce che non era giusto. Non era giusto.
Però tu eri troppo forte e hai combattuto fino alla fine. Sono arrivati i medici e hanno detto che c’eri ancora.
Per me quella mattina è finito tutto.
Nei giorni successivi, casa era affollata e silenziosa. Noi, tutti noi, l’infermiere, lui. C’era una strana calma.
Poi, una mattina, mentre io dormivo e gli altri si erano allontanati, sei rimasta sola con lui.
Allora hai fatto un sospiro e sei andata via.

Dopo c’è stato lui che è venuto a dircelo mentre eravamo ancora a letto.
“Ok, prima faccio colazione e poi ci organizziamo” gli ho risposto.
Sono diventata un cyborg. Ho fatto le telefonate necessarie, accolto gli ospiti, parlato, spiegato, detto frasi di circostanza, ringraziato per le condoglianze.
Poi la casa si è svuotata. Siamo rimasti noi e lui. Tu eri ancora nell’altra stanza, ma non c’eri più. Ed era strano.
Poi il funerale e la sepoltura. Avevo i miei jeans preferiti e i tacchi alti e gli occhiali scuri.
Sono stata con V, sul fondo della chiesa. Lontano dai parenti, lontano dalla gente che piangeva.
Io ho pianto poco, tutto sommato. Ho pianto quando il tumulo è stato chiuso. Quando ci si rende conto che non ci si vedrà più.
V aveva avvisato gli amici più stretti. Abbiamo mangiato insieme. Poi sono andati via.

Da quel momento è iniziata la guerra vera.

Ho fatto delle promesse. Ti ho promesso che ce l’avrei messa tutta, che non mi sarei avvilita, che avrei finito in fretta gli studi e avrei trovato il modo di realizzarmi.
Disattendo le promesse che ti ho fatto ogni giorno che passa.
A me stessa ho promesso di piangere solo per le cose importanti. Ma ultimamente, continuo a fallire anche in questo.

12 pensieri su “Di Te

  1. E' straziante leggerlo, non oso immaginare averlo vissuto.
    Ti seguo da un po' su twitter, non capivo la metà dei tuoi pensieri tristi, non capivo la metà delle cose che scrivevi. Ora sì. Sei una donna fortissima secondo me.
    Un abbraccio da una sconosciuta.
    Bi.

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  2. E' una strana sensazione leggere delle frasi che descrivono nel dettaglio una storia già vissuta , forse a conferma che per quanto si digeriscano dolori ed emozioni in maniera personale siamo più uguali di quanto pensiamo
    Hai superato una prova durissima Chiara quindi testa alta e sguardo fiero, devi essere orgogliosa di te stessa
    Un abbraccio forte forte forte
    Uno sconosciuto
    Roberto

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  3. Chiara, sei una Donna. Una donna forte. Non trovo le parole “giuste” da dirti, forse perché non ci sono, forse perché in questo caso le parole non servono a molto. Non ci conosciamo di persona, ma so già che sei una donna forte, che deve essere solo orgogliosa di sé stessa, che deve capire quanto vale. Perché sei una splendida persona e vali tantissimo, molto di più di quello che credi o ti vogliono far credere gli altri.
    Un abbraccio.

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  4. Chi vive un lutto entra in risonanza col dolore altrui, sente quello degli altri rivivendo il proprio.
    Quante lacrime leggendo il nome di quei farmaci, quanto dolore e quanta paura significano. Li conservo ancora tutti ammucchiati in una grande busta, incapace di metterli a posto, così come di gettarli via.

    Mio papà se n'è andato in un giorno di primavera stucchevolmente bello, io lo sapevo benissimo che sarebbe successo entro breve da quando scoprimmo le metastasi epatiche, ma lo negavo perché mi sembrava di fare i conti alla sua vita e mi veniva da vomitare.
    A differenza tua avevo qualche anno in più, ma non si è mai troppo grandi per accettare di perdere una delle due persone che ci ama di più al mondo e sopra chiunque altro. Quante cose gli vorrei chiedere, quanto mi mancano le sue risposte, quelle a cui affidarmi con una fiducia mai più provata.

    Non so trovare un senso a tutto questo, non sono mai stata più atea di adesso.
    Tutto ciò che è venuto a galla da questa esperienza è una maggiore sensibilità, ma va usata per stabilire rapporti interpersonali più autentici e non come arma per autodistriggerci.

    Ti abbraccio fortissimo e ti auguro di trovare sempre più serenità. Lo auguro anche a me stessa.

    Alessandra

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  5. Le metastasi epatiche. Quanto le ho odiate quelle stronze. Ogni tanto trovo ancora qui e là qualche vecchia scatola di qualche medicinale e fa ancora un po' male. Perché mi ricordo che non è giusto, cazzo, non è giusto. E il senso non c'è, si vede che doveva andare così. Io un po' ci credo a quella storia trita e ritrita del “se non uccide, fortifica”, insomma non riesco a immaginare tante altre cose che possano fare COSI' tanto male.
    Ce la caveremo, in un modo o nell'altro, perché siamo già delle sopravvissute.

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  6. Io le medicine le ho buttate tutte, immediatamente, non appena sono arrivata a casa per sceglierle i vestiti: piangevo in silenzio e riempivo una busta con i chemioterapici, il toradol, lo zofran, gli antiepiletici, il cortisone, il protettore gastrico e tutte quelle che non mi ricordo.

    Sono corsa fuori e le ho gettate nel cassonetto, in silenzio, con lo sguardo addosso delle cugine che non capivano.

    Non è stato liberatorio o catartico, è solo che io quella roba non la voglio vedere mai più.

    Ti abbraccio Chiara, perchè so che sei una delle poche che capisce come sto.

    Elisa (Viola)

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  7. Oh Chiaretta. Mi hai lasciata senza parole, e non so neanche se le poche che ho già affastellato senza pensarci (Chiar-etta…?!) sono giuste. Mi spiace infinitamente, stellina, per la tua dolce mamma combattente e per te, che hai dovuto affrontare tutto questo…e il dopo…l’assenza. Ti abbraccio forte forte perché altro da dire mi sembra stucchevole -solo che tu sei una ragazza straordinaria e…si dice che la mela non cada lontana dall’albero, lo sai, vero? Perciò brava Mamma di Kella, bravissima. Le stia vicina, da Lassù, accarezzandola con gli occhi e regalandole un po’ di sospirata, meritata Serenità.

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